lunedì 22 settembre 2014

Epopea di Gilgamesh

MITI SUMERO-ACCADICI

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Gilgamesh
(Poema del signore di Kullab)



Gilgamesh e la creazione del suo doppio

Colui che tutto seppe e che comprese il senso delle cose. Colui che tutto vide e tutto insegnò.
Che conobbe i paesi del mondo... Grande fu la sua gloria. Grande è la tua gloria, divino Gilgamesh!
Egli edificò le mura di Uruk. Intraprese un lungo viaggio e conobbe tutto ciò che avvenne prima del Diluvio. Al ritorno incise tutte le sue gesta su una stele. Poiché lo crearono i grandi dèi, due terzi del suo corpo sono di dio e un terzo è di uomo.
Dopo che ebbe combattuto contro tutti i paesi ritornò a Uruk, la sua patria. Ma gli uomini mormoravano con odio perché prendeva i giovani migliori per le sue gesta e governava in modo ferreo. Perciò la gente andò a portare le proprie lamentele agli dèi e gli dèi ad Anu. Anu innalzò la protesta fino ad Aruru dicendole queste parole:
“Tu, Aruru, che hai creato l’umanità, crea adesso una copia di Gilgamesh: quest’uomo a tempo debito l’incontrerà e finché lotteranno tra loro Uruk vivrà in pace”.
La dea Aruru, sentendo questa preghiera, immaginò in sé un’immagine del dio Anu, inumidì le proprie mani, impastò un blocco di argilla, ne modellò i contorni e plasmò il coraggioso Enkidu, l’eroe augusto, il campione del dio Ninurta. Tutto il suo corpo è coperto di vello, i suoi capelli sono pettinati come quelli di una donna, sono fitti come l’orzo nei campi.
E’ vestito come il dio Sumuqan e nulla sa degli uomini e della terra. Insieme alle gazzelle si nutre di erbe, insieme al bestiame si abbevera alle fonti. Sì, gli piace bere con le greggi.
Con il passar del tempo, un cacciatore incontrò Enkidu e il suo viso si contrasse per la paura.
Andò dal padre e gli narrò le prodezze che aveva visto compiere da quell’uomo selvaggio. Il vecchio, allora, inviò il figlio a Uruk affinché chiedesse aiuto a Gilgamesh.
Quando Gilgamesh ebbe ascoltato la storia dalla voce del cacciatore, gli raccomandò di prendere una bella servitrice del tempio, una figlia dell’allegria, e portando la seco di metterla alla portata dell’intruso.
“Cosicché quando egli vedrà la ragazza ne rimarrà invaghito e dimenticherà i suoi animali e i suoi animali non lo riconosceranno”.
Dopo che il re ebbe così parlato, il cacciatore procedette secondo le indicazioni e giunse in tre giorni al luogo dell’incontro. Trascorse un giorno e ancora un altro finché gli animali giunsero alla fonte per abbeverarsi. Dietro di essi apparve l’intruso, che vide la servitrice seduta. Quando costei si alzò e andò lesta verso di lui, Enkidu fu preso dalla sua bellezza. Per sette giorni si accompagnò a lei finché decise di andare di nuovo con il suo bestiame ma le gazzelle e il gregge del deserto si allontanarono da lui. Enkidu non poté rincorrerli ma la sua intelligenza si aprì, pensieri d’uomo gravarono sul suo cuore.
Tornò a sedersi accanto alla donna e costei gli disse:
“Perché vivi con gli animali come un selvaggio? Vieni, ti guiderò a Uruk al santuario di Anu e della dea Ishtar, da Gilgamesh che nessuno vince”.
Ciò piacque a Enkidu perché il suo cuore cercava un amico e quindi lasciò che la giovane lo guidasse fino ai fertili pascoli dove sono i recinti e i pastori.
Il latte delle bestie selvagge era solito succhiare ed ecco che qui gli offrono pane e vino. Spezzò il pane, lo guardò, lo esaminò, ma Enkidu non sapeva cosa farne... La schiava sacra prese la parola e disse a Enkidu:
“Mangia il pane, oh Enkidu!, perché è fonte di vita; bevi il vino, è l’usanza del paese ”.
Allora mangiò Enkidu il pane, mangiò fino a saziarsi, bevve il vino, bevve sette volte... Un barbiere tosò il vello del suo corpo ed Enkidu si asperse di unguenti, come fanno gli uomini, e indossò abiti da uomo e rifulse come un giovane sposo. Prese la sua arma, attaccò i leoni e così permise ai pastori di dormire per tutta la notte. Ma un uomo andò vicino a Enkidu, aprì la bocca e disse: "Per Gilgamesh, re di Uruk la ben cinta di mura, si trascina la gente al lavoro dei campi! Donne imposte dalla sorte l’uomo feconda, e poi, la morte! Per volontà degli dèi questo è il verdetto: sin dal seno materno la morte è il nostro destino”. Enkidu, furioso, promise di mutare l’ordine delle cose.
Ma poiché Gilgamesh aveva visto in sogno il selvaggio e aveva compreso che avrebbero dovuto confrontarsi in combattimento, quando il suo avversario gli si pose sul cammino, gli si scagliò contro con la forza del toro indomito. Le genti si affollarono per assistere alla fiera lotta e celebrarono la somiglianza di Enkidu con il re. Di fronte alla casa dell’Assemblea lottarono.
Ridussero le porte in frantumi e demolirono i muri e, quando il re riuscì ad atterrare Enkidu, questi si acquietò lodando Gilgamesh. Perciò, si abbracciarono suggellando la loro amicizia.

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Il Bosco dei Cedri

Gilgamesh fece un sogno ed Enkidu disse: “Questo è il significato del tuo sogno. Il padre degli dèi ti ha dato lo scettro, tale è il tuo destino, ma non l’immortalità. Ti ha dato potere per sottomettere e per liberare... non abusare di questo potere. Sii giusto con i tuoi servitori, sii giusto di fronte a Ishtar ”. Il re Gilgamesh pensò allora al Paese della Vita, il re Gilgamesh ricordò il Bosco dei Cedri. E disse a Enkidu:
“Non ho inciso il mio nome sulle steli, come il mio destino decreta, andrò quindi nel paese in cui si taglia il cedro, mi farò un nome lì dove sono scritti quelli di uomini gloriosi”.
Enkidu si rattristò perché in quanto figlio della montagna conosceva le strade che portano al bosco. Pensò:
“Diecimila leghe vi sono dal centro del bosco, quale che sia la direzione da cui vi si entra. Nel cuore del bosco vive Humbaba (il cui nome significa ‘Enormità’). Egli soffia vento di fuoco e il suo grido è tempesta ”.
Ma Gilgamesh aveva deciso di andare nel bosco per mettere fine al male del mondo, il male di Humbaba. E poiché era del tutto intenzionato, Enkidu si preparò a guidarlo, non senza prima avergli spiegato quali erano i pericoli.
“Un grande guerriero che non dorme mai-disse- fa la guardia agli ingressi. Solo gli dèi sono immortali e l’uomo non può ottenere l’immortalità, non può lottare contro Humbaba”.
Gilgamesh si raccomandò a Shamash, il dio del sole. A questi chiese aiuto per la sua impresa.
Gilgamesh ricordò i corpi degli uomini che aveva visto galleggiare nel fiume mentre guardava dalle mura di Uruk. I corpi di nemici e amici, di conosciuti e sconosciuti. Allora intuì la propria fine e portando al tempio due capretti, uno bianco senza macchia e l’altro marrone, disse a Shamash:
“Nella città l’uomo muore, con il cuore oppresso l’uomo muore, non può ospitare speranza nel suo cuore... Ah!, lungo è il cammino per giungere alla dimora di Humbaba. Se questa impresa non può essere condotta fino alla fine, perché , oh Shamash, hai colmato il mio cuore dell’impaziente desiderio di realizzarla?”.
...E Shamash accettò l’offerta delle sue lacrime. Shamash, il compassionevole, gli concesse la propria grazia. Celebrò per Gilgamesh forti alleanze con tutti i figli della stessa madre, che riunì nelle grotte delle montagne.
Quindi gli amici incaricarono gli artigiani di forgiare le loro armi e i maestri trassero i giavellotti e le spade, gli archi e le asce. Le armi di ciascuno pesavano dieci volte trenta sicli e l’armatura altri novanta. Ma gli eroi partirono e in un giorno percorsero cinquanta leghe. In tre giorni fecero tanto cammino quanto ne fanno i viaggiatori in un mese e tre settimane. Prima di giungere alla porta del bosco dovettero attraversare sette montagne. Compiuto il cammino la trovarono, alta settanta cubiti e larga quarantadue. Tale era l’abbagliante porta, e non la distrussero a causa della sua bellezza. Fu Enkidu a scagliarvisi contro spingendo solo con le mani fino ad aprirla completamente. Poi discesero per arrivare ai piedi della verde montagna.
Immobili contemplarono la montagna di cedri, dimora degli dei. Lì gli arbusti ricoprivano il declivio. Per quaranta ore rimasero estasiati a rimirare il bosco e ad osservare il magnifico sentiero che Humbaba percorreva per raggiungere la sua residenza...
Scese la sera e Gilgamesh scavò un pozzo. Spargendo farina invocò dalla montagna sogni benefici. Seduto sui talloni, con il capo sulle ginocchia, Gilgamesh sognò ed Enkidu interpretò i sogni densi di pronostici. La sera successiva Gilgamesh chiese sogni favorevoli per Enkidu, ma i sogni che la montagna inviò furono di malaugurio. Gilgamesh non si ridestava ed Enkidu, compiendo grandi sforzi, riuscì a metterlo in piedi. Ricoperti delle loro armature cavalcarono la terra come se indossassero vesti leggere. Giunsero fino all’immenso cedro e, allora, le mani di Gilgamesh brandendo l’ascia abbatterono il cedro.

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Da lontano Humbaba lo intese e gridò infuriato:
“Chi è costui che ha violato il mio bosco e ha tagliato il mio cedro?”.
Gilgamesh rispose:
“Non tornerò nella città, no, non ripercorrerò il cammino che mi ha condotto al Paese della Vita, senza combattere con quest’uomo, se appartiene alla razza umana, senza combattere con questo dio, se è un dio... La barca della morte non navigherà per me, non esiste al mondo tela da cui ritagliare un sudario per me, né il mio popolo conoscerà la desolazione, né il mio focolare vedrà ardere la pira funebre, né il fuoco brucerà la mia casa ”.
Humbaba uscì dalla sua residenza e inchiodò l’occhio della morte su Gilgamesh. Ma il dio del sole, Shamash, sollevò contro Humbaba terribili uragani: il ciclone, il turbine. Gli otto venti di tempesta si abbatterono contro Humbaba in modo che questi non poté più avanzare né indietreggiare mentre Gilgamesh ed Enkidu tagliavano i cedri per entrare nei suoi domini. Perciò, Humbaba finì per presentarsi docile e atterrito di fronte ai due eroi. Promise i più grandi onori e Gilgamesh era sul punto di accettare e di abbandonare perciò le armi, quando Enkidu, interrompendolo, disse: “Non ascoltarlo! No, amico mio, il male parla attraverso la sua bocca. Deve morire per mano nostra!”. E grazie all’avviso del suo amico, Gilgamesh si riebbe. Impugnata l’ascia e sguainata la spada, ferì Humbaba al collo, mentre Enkidu faceva altrettanto, finché alla terza volta Humbaba cadde e rimase a terra morto. Silenzioso e morto. Allora gli distaccarono la testa dal corpo e, in quel momento, si scatenò il caos perché colui che giaceva era il Guardiano del Bosco dei Cedri. Enkidu abbatté gli alberi del bosco e trascinò le radici fino alle rive dell’Eufrate.
Poi, deposto il capo del vinto in un sudario lo mostrò agli dèi.
Quando Enlil, signore della tormenta, vide il corpo senza vita di Humbaba, furibondo tolse ai profanatori il potere e la gloria che erano stati di lui e li diede al leone, al barbaro, al deserto. Gilgamesh lavò il proprio corpo e trascinò lontano le proprie vesti insanguinate, indossandone altre immacolate. Quando sul suo capo brillò la corona reale, la dea Ishtar posò su di lui i suoi occhi. Ma Gilgamesh la respinse perché lei aveva perduto tutti i suoi sposi e li aveva ridotti alla servitù più abietta per mezzo dell’amore. Così disse Gilgamesh:
“Sei una rovina che non dà all’uomo riparo contro il maltempo, sei una porta secondaria che non resiste alla tempesta, sei un palazzo saccheggiato dagli eroi, sei un’imboscata che nasconde i suoi tradimenti, sei una piaga infiammata che brucia chi l’ha, sei un otre pieno di acqua che inonda il suo portatore, sei un pezzo di pietra tenera che fa sgretolare le mura, sei un amuleto incapace di proteggere in terra ostile, sei un sandalo che fa inciampare il suo padrone lungo il cammino!”.


Il Toro Celeste, la morte di Enkidu e la discesa agli inferi

Furente la principessa Ishtar si rivolse al padre Anu e minacciò di infrangere le porte dell’Inferno per farne uscire un esercito di morti più numeroso di quello dei vivi.
Così gridò:
“Se non scateni contro Gilgamesh il Toro Celeste, lo farò io”.
Anu si accordò con lei, in cambio della fertilità dei campi per sette anni. E subito creò il Toro Celeste che cadde sulla terra. Al primo assalto, la bestia uccise trecento uomini. Al secondo, altre centinaia caddero. Al terzo attaccò Enkidu che però lo prese per le corna. Il Toro Celeste aveva la schiuma alla bocca e colpiva furiosamente Enkidu con la coda. Allora Enkidu balzò sulla bestia e la atterrò in tutta la sua lunghezza torcendole la coda. E gridò:
“Gilgamesh, amico mio, abbiamo promesso di lasciare fama duratura. Affonda ora la tua spada tra la nuca e le corna”.
E Gilgamesh affondò la sua spada tra la nuca e le corna del Toro Celeste e lo uccise... Poi strapparono al Toro Celeste il cuore, lo offrirono al dio Shamash... Allora, la dea Ishtar salì sulle mura di Uruk, la ben cinta, salì sul punto più alto delle mura e proferì una maledizione:
“Sia maledetto Gilgamesh, poiché s’è preso gioco di me uccidendo il Toro Celeste!”.
Intese Enkidu queste parole di Ishtar e afferrati i brani del Toro Celeste se li lanciò sul volto.
Quando fece giorno, Enkidu ebbe un sogno. Vide gli dèi riuniti a consiglio: Anu, Enlil, Shamash ed Ea. Discussero della morte di Humbaba e del Toro Celeste e decretarono che, dei due amici, Enkidu sarebbe dovuto morire. Dopo questo sogno, si ridestò e raccontò quello che aveva visto.

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Tornò a sognare e questo è quel che narrò: “Il flauto e l’arpa caddero nella Grande Casa; Gilgamesh vi mise la mano, non riuscì a raggiungerli, vi mise il piede, non riuscì a raggiungerli. Allora Gilgamesh si sedette davanti al palazzo degli dèi del mondo sotterraneo, versò lacrime e il suo viso divenne giallo.
“Oh, il mio flauto, oh, la mia arpa! Il mio flauto, il cui potere era irresistibile! Il mio flauto, chi lo riporterà indietro
dagli inferi?”
.
Il suo servitore Enkidu gli disse:
“Mio signore, perché piangi? Perché è triste il tuo cuore? Oggi andrò a riprendere il tuo flauto negli inferi”
... Possa Enkidu tornare dagli inferi!...
(Allora) il padre Ea si rivolse al coraggioso eroe Nergal:

“Apri la fossa che comunica con gli inferi! Che lo spirito di Enkidu torni dagli inferi e possa parlare con il fratello!...”

Lo spirito di Enkidu come un soffio uscì dagli inferi e Gilgamesh ed Enkidu parlarono.

-Dimmi amico mio, dimmi amico mio, dimmi la legge del mondo sotterraneo, tu la conosci...
-Quello che è caduto in battaglia, lo hai visto?
-L’ho visto, il padre e la madre gli tengono il capo sollevato e la sposa lo abbraccia.
-Quello il cui cadavere è rimasto abbandonato nella pianura, lo hai visto?
-L’ho visto, il suo spirito non ha riposo negli inferi.
-Quello il cui spirito non ha nessuno che gli renda omaggio, lo hai visto?
-L’ho visto, come i resti delle pentole e dei piatti che si gettano in strada”
.

Enkidu si ammalò e morì. Gilgamesh disse allora: “Soffrire. La vita non ha altro senso che il morire! Io morirò come Enkidu? Devo cercare Utnapishtim che chiamano il “Lontano” affinché spieghi come è giunto alla immortalità. Prima esternerò il mio lutto, poi vestirò la pelle di leone e invocando Sin mi metterò in cammino”. Gilgamesh aveva percorso tutti i cammini fino a giungere alle montagne, fino alle porte stesse del Sole. Lì si arrestò davanti agli uomini-scorpione, i terribili guardiani delle porte del Sole. Chiese di Utnapishtim: “Desidero interrogarlo sulla morte e sulla vita”. Allora, gli uomini-scorpione tentarono di dissuaderlo dall’impresa.
“Nessuno che entri nella montagna vede la luce”, dissero.
Ma Gilgamesh chiese che gli aprissero la porta della montagna e alla fine così fu fatto.
Camminando per ore e ore doppie nella profonda oscurità vide in lontananza un chiarore e giuntovi uscì di fronte al Sole.
E lì era il giardino degli dei. I suoi occhi videro un albero e vi si diresse: dai suoi rami di lapislazzuli pendeva, come grande frutto, il rubino.
Vestito della pelle di leone e mangiando carne di animali, Gilgamesh vagava per il giardino senza sapere in quale direzione andare; perciò, quando Shamash lo vide, impietosito gli disse:
“Quando gli dèi generarono l’uomo tennero per loro l’immortalità. La vita che cerchi non la troverai mai”.
Ma Gilgamesh giunse alla spiaggia, fino al barcaiolo del Lontano. Lanciatisi nel mare scorsero la terra, ma Utnapishtim, che li vide arrivare, domandò spiegazioni all’accompagnatore del suo barcaiolo.
Gilgamesh gli diede il proprio nome e spiegò il senso del viaggio.


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Il Diluvio Universale

E disse Utnapishtim:
“Ti svelerò un grande segreto. Vi fu un’antica città chiamata Suruppak, sulle rive dell’Eufrate. Era ricca e sovrana. Tutto vi si moltiplicava, i beni e gli esseri umani crescevano in abbondanza. Ma Enlil, infastidito dal clamore, disse agli dei che non era più possibile indurre il sonno ed esortò a porre fine all’eccesso scatenando il Diluvio. Ea, allora, in un sogno mi rivelò il disegno di Enlil.
“Abbatti la tua casa e salva la tua vita, costruisci una barca che dovrà essere coperta da un tetto e avrà lunghezza e larghezza uguali. Poi porterai sulla barca il seme di ogni essere vivente. Se ti interrogheranno sul tuo lavorare dirai che hai deciso di andare a vivere nel golfo”. I miei piccoli trasportavano bitume e i grandi facevano tutto ciò che era necessario.
Il quinto giorno terminai la chiglia e l’armatura. Sulle loro coste fissai con attenzione l’intavolatura. Il piano, quattro volte dieci are misurava, ogni lato del piano formava un quadrato che misurava dodici volte dieci cubiti di lunghezza, ogni parete dal piano alla copertura misurava dodici volte dieci cubiti di altezza. Sotto la copertura costruii sei coperte, con il piano, sette, e ciascuna di esse divisi in nove parti con sottili pareti... Lavoro pieno di difficoltà fu vararla, pesante fu trascinare i tronchi dall’alto fin giù, finché, rotolando su di essi, la barca s’immerse per due terzi.
Il settimo giorno la barca era completa e carica di tutto il necessario. La mia famiglia, i parenti e gli artigiani caricai sulla barca e poi vi feci salire gli animali domestici e quelli selvatici. Quando l’ora fu giunta, quel pomeriggio, Enlil mandò il Cavaliere della Tempesta. Salii sulla barca, la chiusi con bitume e asfalto, e poiché tutto era pronto, affidai il timone al barcaiolo Puzur-Amurre. Nergal divelse le paratoie delle acque inferiori e, tuonando, gli dèi distrussero campi e montagne. I giudici dell’Inferno, gli Anunnaki, scagliarono le loro tede e la notte divenne giorno. Giorno dopo giorno aumentava la tempesta e sembrava prendere nuovo vigore da se stessa. Al settimo giorno il Diluvio cessò e il mare si placò.
Aprii il boccaporto e il sole mi investì in pieno. Invano osservai, tutto era mare. Piansi per gli uomini e per gli esseri viventi nuovamente trasformati in fango.
Scoprii soltanto una montagna distante circa quattordici leghe. E lì , sul monte Nisir, la barca si fermò.
Il monte Nisir le impedì di muoversi...
Quando fu arrivato il settimo giorno lasciai libera una colomba e la colomba si allontanò, ma poi tornò , poiché non v’era luogo ove potesse riposare, tornò. Allora liberai una rondine, e la rondine si allontanò ma tornò, poiché non v’era luogo ove potesse riposare, tornò. Allora liberai un corvo, e il corvo si allontanò, vide che le acque si erano ritirate, e mangiò, volteggiò, gracchiò e non tornò.
Quindi gli dèi si riunirono in consiglio e rimproverarono a Enlil il castigo troppo duro che aveva dato alle creature, cosicché Enlil venne alla barca e, fatti inginocchiare mia moglie e me, toccò le nostre fronti dicendo:
“Nei tempi passati Utnapishtim era mortale, ma da ora sarà un dio come noi e vivrà lontano nella foce dei fiumi, e sua moglie lo accompagnerà per sempre.”
Quanto a te, Gilgamesh, perché gli dèi dovrebbero concederti l’immortalità?”
.


Il ritorno

Utnapishtim sottopose Gilgamesh ad una prova. Questi dovette tentare di non dormire per sei giorni e sette notti. Ma non appena l’eroe si sedette sui talloni, una nebbia lieve della lana del sonno cadde su di lui.
“Guardalo, guarda colui che cerca l’immortalità!”, così disse il Lontano a sua moglie.
Risvegliatosi, Gilgamesh si lamentò amaramente per il fallimento: “Dove andrò? La morte è in tutti i miei cammini”. Utnapishtim, contrariato, ordinò al barcaiolo di far tornare indietro l’uomo ma, non senza pietà per lui, decretò che le sue vesti non sarebbero mai invecchiate, cosicché di nuovo in patria avrebbe potuto rifulgere splendido di fronte agli occhi mortali.
Nell’accomiatarsi, il Lontano sussurrò:
“Vi è sul fondo delle acque una pianta, al licio spinoso è simile perché ferisce come le spine di un rosaio, le mani può lacerare; ma se le tue mani se ne impadroniranno e la conserveranno, sarai immortale!”.
Gilgamesh entrò nelle acque, legando ai propri piedi pietre pesanti. Si impadronì della pianta e intraprese il ritorno mentre diceva a se stesso: “Con questa pianta darò da mangiare al mio popolo e anch’io potrò riacquistare la mia giovinezza”. Poi camminò per ore e doppie ore nell’oscurità della montagna fino ad attraversare la porta del mondo. Dopo queste fatiche vide una fonte e vi si bagnò, ma un serpente uscito dalle profondità prese la pianta e andò a immergersi fuori dalla portata di Gilgamesh.
Così il mortale fece ritorno a mani vuote, con il cuore vuoto. Così fece ritorno a Uruk la ben cinta.
Il destino di Gilgamesh, che Enlil decretò, si è compiuto... Pane per Neti il Guardiano della Porta.
Pane per Ningizzida il dio-serpente, signore dell’Albero della Vita. E anche per Dumuzi, il giovane pastore che fertilizza la terra.
Colui che tutto seppe e che comprese il senso delle cose. Colui che tutto vide e tutto insegnò.
Che conobbe i paesi del mondo... Grande fu la sua gloria!
Egli, che edificò le mura di Uruk, che intraprese un lungo viaggio e che seppe tutto ciò che avvenne prima del Diluvio, al ritorno incise le sue gesta su una solida stele.
Alla fine anche Gilgamesh morì nonostante le sue imprese.

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